“I popoli con la pancia piena hanno la testa nelle loro interiora” – Catone, II secolo A.C.
E’ una domenica tranquilla quella che vivo nella mia casa di Milano. Preparo un risotto alla zucca e nel frattempo metto in ordine. Ma già da ieri non posso che rimanere colpito dalla bomba sociale generata dall’arrivo del Coronavirus. Il focolaio nel lodigiano e i casi registrati in Veneto hanno scatenato una reazione mediatica e popolare di carattere storico. Il nord è allarmato: le scuole e le università sono chiuse, così come tutti i principali centri di aggregazione. Anche gli scaffali dei supermercati iniziano a svuotarsi, e negli store on-line il prezzo delle mascherine e dell’amuchina schizza alle stelle. Sembra davvero una pandemia globale che, ora, ci riguarda da vicino.
Non posso, però, nemmeno ignorare il mio vissuto emozionale, che per dirla francamente è di stupore. Si, perché nonostante i numeri e le caratteristiche del fenomeno, che meritano attenzione e i dovuti accorgimenti sanitari, ritengo che il maggior rischio si celi nella reazione psicologica di massa. Sembra infatti che a nulla valgano tutti gli studi e le evidenze che mettono in luce la bassissima mortalità del virus, incapaci di moderare il panico generale.
Andiamo con ordine. L’OMS ha evidenziato che il Covid-19, questo il nome scientifico del nuovo Corona-virus, non è mortale come Sars (Severe acute respiratory syndrome) e Mers (Middle East respiratory syndrome). È proprio Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’O.M.S., ad aver dichiarato che: “oltre l’80% dei pazienti infetti ha una forma moderata e guarisce. Nel 14% dei casi il virus causa malattia severa, con polmonite e respiro corto. E circa il 5% dei pazienti va incontro a un quadro critico con insufficienza respiratoria, shock settico e collasso multi-organo. Nel 2% dei casi riportati di Covid-19 il virus è risultato fatale, più nei pazienti anziani. Ci sono meno casi tra i bambini e abbiamo bisogno di più ricerca per capire perchè”.
Tuttavia, uno studio effettuato dal Centro Cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie (Ccdc) indica risultati opposti a quelli suggeriti dall’OMS, rilevando al contrario che il Covid-19 sarebbe più letale dei suoi “cugini” (Sars e Mers, per l’appunto). Il numero di morti tra le persone infette rimane comunque molto basso; tra queste la stragrande maggioranza è concentrata tra gli over 80.
La situazione internazionale, inoltre, sta migliorando. E’ quanto ha rilevato la piattaforma della Johns Hopkins University, che segnala che il numero di guariti dal virus nel mondo alle ore 00:10 del 24 febbraio ammonta a 23.348 su un totale di 78.971 inteffati.
Lo Spallanzani, il primo centro di ricerca ad aver isolato il virus, avverte che essa non è una malattia mortale. Anche Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di Genetica Molecolare del Cnr di Pavia, ha parlato di bassa letalità sulla base dei risultati del primo grande studio sul corona-virus: senza complicazioni il 95% dei malati, colpiti soprattutto gli anziani, molto meno i bambini.
Una domanda, dunque, sorge spontanea: perché un siffatto allarme? Perché la reazione sociale delle persone ignora totalmente i tanti studi scientifici che, pur riconoscendo una certa gravità del problema, invitano alla calma? Di certo è evidente che la razionalità dei numeri e delle evidenze scientifiche non hanno il potere di accogliere e gestire il vissuto emotivo messo in moto dalla paura.
Già Gustave Le Bon, nei suo studi sulla psicologia delle folle, notava che l’individuo, all’interno di gruppi composti da un numero molto elevato di persone, perde la propria “individualità”, e insieme ad essa la capacità critica di interpretare gli avvenimenti, diventando inabile a compiere scelte dotate di senso. Egli era arrivato a tali conclusioni a cavallo tra 800 e 900; chissà cosa penserebbe, oggi, del fenomeno “Corona-virus”.
Come larga parte degli studiosi della persuasione collettiva ha evidenziato da circa un secolo, sono le emozioni a governare le masse, non i dati razionali; ed è su di esse che si basa la cosiddetta “costruzione sociale de rischio”. La paura di perdere i propri cari o addirittura la propria vita fa tramontare definitivamente la possibilità di capire davvero. Se le emozioni sono sempre legittime, esse dovrebbero essere sempre integrate all’interno di un sistema di giudizio critico, cosciente, orientato a carpire la profondità della realtà.
È la mancanza di controllo che ci pone in uno stato di perenne agitazione: il virus non si vede, viaggia liberamente, varca i “confini” delle nostre città. Smettiamo di sentirci protetti, e così la logica securitaria annienta ogni possibilità di restare calmi, centrati, coscienti. Viviamo in un’ epoca in cui l’emozione prevalente è la paura, oramai assunta a vero e proprio paradigma attraverso cui leggere i diversi avvenimenti: paura dell’immigrato, paura del terrorismo, e adesso paura del corona virus. Una paura mai mediata o temperata da altre riflessioni o emozioni, unica dittatrice delle nostre opinioni. Nulla è controllabile se alla paura non si accosta la gioia della curiosità, la voglia di capire, il coraggio di non cedere a narrazioni totalizzanti e dalle infauste conseguenze.
Qui non si tratta di essere negazionisti, allarmisti o realisti. Bisognerebbe solo essere consapevoli che oggi la paura è probabilmente l’unico “virus” sociale che dovremmo debellare. Ma siamo troppo preoccupati dai singoli avvenimenti, e così finiamo per smarrirci nelle anguste stanze delle nostre angosce più profonde.
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