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    "Andare, per poi ritornare": quale futuro per l'emigrazione studentesca africana?

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    Non è la prima volta che l’Italia intrattiene delle relazioni sul piano della formazione universitaria con un paese africano. Durante l’amministrazione fiduciaria in Somalia (in acronimo A.F.I.S. – 1950-1960) il governo sponsorizzò largamente il finanziamento di borse di studio per i giovani somali che volevano venire a studiare in Italia. Tuttavia, tale interesse non era scevro da vantaggi e tornaconti nazionali, specialmente per quanto riguardava l’interesse strategico di creare una classe dirigente somala che fosse culturalmente “vicina” all’ ex “madre-patria”. 

    “La Somalia ha oggi indubbiamente una classe politica dirigente che ha una cultura di orientamento italiano. Sottolineo ciò perché è opportuno che questa caratteristica culturale abbia a rimanere anche per il domani. Del resto è desiderio anche della Somalia che l’Italia continui ad essere presente nel nuovo Stato in campo culturale. Raccomando al Governo di prestare attente cure al problema delle borse di studio, in modo da garantire la continuazione dell’afflusso di studenti somali in Italia”.

    Così si esprimeva il deputato democristiano Giuseppe Bettiol nel 1962, chiedendo il proseguimento del programma di finanziamenti  delle borse di studio, proprio in virtù dell’importanza politica che tali investimenti avevano per il mantenimento del controllo in Somalia. Per tutti gli anni 60 i somali continueranno a venire in Italia per proseguire gli studi universitari, restando in cima alla classifica degli studenti stranieri che usufruiscono di borse di studio

    Quella tra Italia e Somalia è una storia segnata da violenza coloniale, subordinazione, controllo della società civile, un passato magistralmente descritto dallo storico Broca, i cui echi sono ancora oggi presenti (si veda, tra i vari contributi, quelli di Igiaba Scego in merito al “fantasma del colonialismo” ). 

    Oggi, su quali basi l’Italia potrebbe costruire nuove relazioni virtuose con i governi africani nell’ambito dell’emigrazione studentesca e degli scambi accademici? Rispondere a una simile domanda è tutt’altro che scontato, soprattuto alla luce del fatto che sempre più studenti saranno disposti a viaggiare per sviluppare nuove conoscenze (fonte Unesco).

    Recentemente, nell’ottobre del 2020, le università di Padova, Bologna, Milano, Firenze, Napoli e Roma hanno creato la fondazione “Italian Higher Education with Africa” finalizzata alla promozione dell’internazionalizzazione degli atenei in Africa e contribuire, in un’ottica di cooperazione, allo sviluppo locale. Obiettivi della fondazione sono contribuire al potenziamento della formazione degli studenti residenti nei Paesi africani, promuovendo altresì percorsi di supporto, aggiornamento per docenti delle università locali. Tale iniziativa si inscrive all’interno di quel ambito accademico definito come “Transnational education”, il cui obiettivo principale è creare una rete di connessioni tra università e sistemi educativi sparsi nel mondo.

    Nel presentare la fondazione, così si è espresso il Ministro “Gaetano Manfredi”

    “La nostra azione come sistema universitario deve necessariamente seguire una logica di cooperazione con le realtà locali: garantire ai giovani la formazione a cui aspirano significa formare una nuova classe dirigente, sviluppare l’imprenditoria locale, innalzare i livelli di democrazia di quei territori”.

    C’è da chiedersi qual’è sarà la natura dei rapporti tra realtà universitarie italiane e locali, e che tipo di relazione caratterizzerà tali sinergie.

    Ritengo che i progetti universitari dei giovani togolesi che scelgono di andare a vivere nel “Bel paese” dovrebbero rappresentare un’opportunità enorme di crescita bilaterale: in Italia si avrebbe la possibilità di studiare insieme a persone provenienti da contesti socio-culturali differenti, con un progetto di vita ben chiaro, che sognano di poter scambiare pezzi di sé con i propri coetanei; il Togo avrebbe l’occasione di fermare l’emorragia dei famigerati “cervelli in fuga”, promuovendo politiche di rientro finalizzate a valorizzare e proteggere giovani formati e desiderosi di fare “bene”. Sarebbe infatti indispensabile, in tal senso, che i governi investano nella creazione di opportunità di lavoro concrete. 

    Certamente, l’emigrazione non è solo un “progetto” o un “investimento”; è abbracciare quel modo di vivere in cui il caso, l’improvvisazione e il “cuore” giocano il ruolo più importante. Nessuno di noi pensa alla propria vita solo nei termini di risultati (forse alcuni si, aderendo in pieno all’ideologia del neoliberismo imperante) . Ciò significa che a prescindere da tutto, ogni essere umano dovrebbe essere libero di muoversi e vivere nel luogo in cui sente che la propria verità essenziale possa evolvere.  L’emigrazione è, innanzitutto, una strategia del vivere e non del sopravvivere. Questo punto, essenziale, dovrebbe essere la matrice di ogni studio e gestione del fenomeno.

    Bisognerebbe davvero che si diffondessero sempre di più nuovi modi di raccontare il fenomeno migratorio, andando oltre le solite e anguste categorie che, oramai, nulla più possono disvelare. 

    Quella studentesca, cioè, è un’emigrazione che non rientra nei due canovacci narrativi dominanti: emigrazione come strategia per affrancarsi dalla miseria (“aiutiamoli”, “poverini”, “sono dei disperati”), immigrazione come problema da gestire, in cui ciò che importa è capire come “governare la migrazione” e  garantire la “sicurezza” pubblica. Sarà per questo che stenta ad entrare nelle agende delle politiche migratorie e dei progetti di cooperazione internazionale?

    Uno dei risultati della ricerca che più mi colpì fu scoprire che, alla domanda “dove pensi di andare dopo che avrai terminato gli studi in Italia?, ben il 70% rispose “ritornare nel mio paese e dare una mano al mio popolo”. Per dirla con Tiken Jah Fakoly, il celebre cantante Ivoriano: “Pourquoi nous fuyons, qui va mener la lutte à notre place?” (Perchè noi fuggiamo? Chi porterà avanti la lotta al nostro posto?

    Nel paese in cui spopola lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, questa evidenza suona in modo bizzarro. 

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