Sarà certamente capitato anche a voi. Stavate facendo qualcosa e nel frattempo pensavate ad altro. Magari vi sta succedendo anche adesso, mentre leggete. I vostri occhi leggono ma non capite quello che leggete, perché la vostra mente vi sta portando altrove.
La mente è stata sempre esaltata dalla filosofia e dalla scienza occidentale, perché vista come lo strumento che ha garantito all’essere umano la superiorità sugli altri esseri viventi in natura.
Si tratta di una facoltà potentissima, capace di farci conoscere il passato per meglio prevedere, fin quanto possibile, e pianificare il futuro; e tecnicamente dovrebbe servire a vivere meglio il presente. In realtà, però, non è sempre così.
Vivere il presente, pensando continuamente al passato e al futuro, significa infatti proiettarsi in dimensioni che non esistono, l’una perché non è più; l’altra perché non è ancora.
La scuola, la cultura e la società occidentale sono state fondate sull’utilizzo, la pratica e lo sviluppo della razionalità. Si studia il passato per apprendere dai grandi studiosi e si sogna un futuro in cui un giorno saremo noi ad essere studiati da chi verrà dopo di noi.
Emblematica e indicativa dell’importanza data dalla nostra cultura al ruolo del pensiero è, per esempio, la famosa frase di René Descartes (1596 – 1650): “penso, dunque sono” (“cogito, ergo sum“).

Ricordo ancora una discussione segnante che ebbi con uno studente di filosofia a Roma 11 anni fa. Il ragazzo studiava tantissimo ed era un appassionato di Kant. Quel giorno disse: “tutti i grandi filosofi e scienziati hanno passato la loro vita a studiare. Alla fine, però, ci sono riusciti: hanno guadagnato l’immortalità. Anche io voglio riuscirci, per questo studio così tanto”.
Sapevo benissimo cosa intendeva. Anche io volevo diventare immortale e passare alla storia, e così anche tante delle persone che avevo conosciuto. Magari è proprio questo che intendeva Hannah Arendt (196 – 1975), quando nell’intervista con Günter Gaus diceva che gli uomini amano “avere un effetto sulla realtà”.
Racconto questa storia giusto per evidenziare quanto l’esercizio del pensiero abbia portato alla costruzione di un Ego spesso troppo ingombrante e presente.
Ma facciamo un passo indietro: cos’è l’Ego? L’Ego è di fatto l’immagine che tendiamo a dare di noi stessi quando qualcuno ci chiede di noi. Di solito raccontiamo le cose di cui siamo più fieri, che titoli abbiamo, che lavoro facciamo, che progetti abbiamo e tutte le belle cose che siamo riusciti ad ottenere nella nostra vita. Un’immagine che in realtà altro non è se non una proiezione di ciò che è stato e che sarà, non di ciò che siamo in quel preciso momento in cui la domanda ci viene posta.
L’Ego si muove continuamente tra passato e futuro, perché altro non è se non una costruzione mentale di ciò che vorremmo gli altri vedano in noi nel presente.
Giusto per intenderci: la ragione è uno strumento utilissimo ed è utile servirsene, quando serve. Pensare troppo ed in maniera compulsiva e incontrollata, però, può avere tante conseguenze spiacevoli: distrazione, ansia, angoscia, paura, frustrazione e tanti altri sentimenti negativi.
E lo sanno bene tutte le persone che utilizzano giornalmente internet e i social media, bombardati da messaggi e distrazioni di ogni tipo, che magari utilizzano il computer e il cellulare per fare una determinata cosa, per poi ritrovarsi dopo 20 minuti a fare tutt’altro, dimenticando completamente di fare quanto originariamente pianificato.
Di fatto, la nostra attenzione è continuamente distolta dall’unico momento che viviamo, lo stesso momento che ci consente di proiettarci nel passato e nel futuro: il presente.

Il concetto di presenza è più facile da esperire che da spiegare. Lo comprendete nel momento in cui prendete coscienza del vostro corpo e ne sentite l’istinto vitale, l’energia in voi che vi anima. Aristotele (384 – 322 a.C) la chiamava ψυχή (psyche), termine che i latini tradussero con la parola “anima”, alla quale il Cristianesimo diede un significato religioso con l’introduzione del concetto di Spirito Santo, Dio stesso, che entra nei corpi dandogli la vita.
Presenza però non significa solo coscienza della propria energia vitale e del proprio corpo, ma anche pieno utilizzo delle proprie sensazioni. Alcune pratiche di meditazione consistono, infatti, proprio nel prendere coscienza del silenzio e dei suoni che da questo emergono e nello stesso si dissolvono, delle visioni, degli odori, dei sapori e delle sensazioni tattili.
Nonostante conoscessi e praticassi da più di un decennio diverse tecniche di meditazione, ho capito solo adesso qual è il fine più o meno esplicito o consapevole di tutte queste pratiche: smettere di pensare ed essere pienamente presenti per vivere ed utilizzare al meglio il pensiero stesso.
È proprio questo che intendeva il batterista Ra Kalam Bob Moses quando durante uno dei nostri dialoghi a Boston citava il chitarrista Tisziji Muñoz: la luce può passare solo attraverso una pietra cava (“the light can only go through a hollow stone”).
Nel momento in cui prendiamo piena coscienza del presente, infatti, i pensieri si dissolvono e restiamo in uno stato di veglia, senza distrazioni.
E i pochi pensieri che sorgeranno da quello stato di silenzio potrebbero essere vere e proprie illuminazioni, adesso riconoscibili come tali, perché smetteranno di essere uno tra i tanti suoni confusi all’interno di un continuo ronzio di sottofondo.