Fin dai tempi della letteratura mitologica classica, l’essere umano è stato prevalentemente discinto in due macro-classi: i vincitori e i vinti; se i primi vengono plauditi e incoraggiati dall’intero entourage di cui fanno parte in letteratura, recitazione, pittura o vita reale che sia, i secondi sono visti sempre con qualche accenno di sospetto: qualcosa avranno pur fatto, se non è stato loro data la possibilità vincere… Che non ne avessero la voglia? La possibilità? Che sia loro mancata l’opportunità?
Qualunque sia la risposta – o le risposte – a tali quesiti, è interessante scoprire come, all’interno di questi due giganteschi gruppi di mastodontiche dimensioni a cui tutti noi, senza esclusione alcuna, facciamo parte, esistano anche personaggi che intendono intersecare i due insiemi, coloro i quali non fanno esattamente parte né dell’una né dell’altra classificazione antropologica ma presentano entrambe le caratteristiche: ne abbiamo chiari esempi in Don Chisciotte, K, Zeno Cosini, Jay Gatsby… E chiunque altro o altra abbia richiamato le nostre simpatie in senso ellenistico del termine, come un sentire insieme: una percezione comune di ciò che il protagonista o il personaggio di turno sta attraversando in quel determinato contesto.
Una regressione di tale visione umanitaria è racchiusa nella versione leggermente e comunemente percepita (concedetemi il termine) come pessimistica dell’antieroe per definizione, composta da quella schiera di esempi umani di ordinaria quotidianità concepiti con un unico intento: sottolineare che non è necessario essere supereroi o sorridere positivamente a ogni piè sospinto, per ispirare gli spettatori.
Parlo dei Malavoglia, di quel “Ciclo dei Vinti” che Giovanni Verga (1840 – 1922) bonariamente sottomise a giudizio della letteratura italiana con cui eseguì una lectio magistralis di sopravvivenza nonostante le intemperie della vita. La cosiddetta Provvidenza, sarcasticamente posta a nome della barca, come è noto ai più, non bastò a evitare la rovina dell’intera famiglia, ma poco importa: si continua ad andare avanti con più forza, con caparbietà e testardaggine, nel bene e nel male delle proprie convinzioni
Ai tempi della letteratura moderna, una scrittrice ha colto nel segno dell’inquietudine contemporanea, di quel senso di sopravvivenza che generalmente ispira, chi ne sia sottomesso, a incattivirsi, a intristirsi e isolarsi, se non già lasciato da solo (o da sola) e costretto a cavarsela da sé. Parlo di Giusy Puglisi e del suo ultimo libro, “Chiunque”, edito da Morellini Editore: minuzioso mosaico della società civile odierna e dei suoi anfratti velati, non desiderati dai più ma comunque parte di tutti noi.
Se si potesse associare un’immagine visiva alla complessità antropologica dello scritto, immaginerei “L’urlo di Munch”, a simbolo dell’isolamento di ognuno di noi, con cui se da una parte ci lascia liberi di essere ciò che siamo nonostante l’occasionale disapprovazione dei molti, dall’altra paghiamo le conseguenze delle nostre scelte e ci apre gli occhi su quei particolari a prima vista insignificanti ma che si riveleranno essere poi, essenziali.
Un particolare che colpisce istantaneamente l’attenzione è la volontà dell’autrice di non apporre etichette sociali: quel chiunque non è rivolto a chiunque altro, diverso da noi, estraneo che non incontreremo mai… Potremmo addirittura essere noi, quelli con lo straccio in mano come la protagonista del racconto che apre il libro, atti a pulire le parole di chi ci osserva con cattiveria, chi ci rivolge parole d’offesa mentre noi stiamo lì a passare un fazzoletto pulito sulla polvere dell’odio per farlo scomparire, temporaneamente, e alla peggio provocare solo uno starnuto passeggero.
O il parroco, riscoperto infatuato di una ragazza casuale, come tante a questo mondo, combatte contro sé stesso e quel pezzettino di stoffa bianco intorno al colletto nero della tunica, affinché non perda il timone di ciò che per lui risulta essere davvero importante: è davvero importante, poi, dopotutto?
Un accenno di distacco dalla linea generale del testo è posto dai due vecchietti, anch’essi senza nome (e qui entra in campo Pavese, per cui al fine di rendere le cose del mondo, concrete, è necessario nominarle, renderle mortali) insieme da così tanto tempo che sembra siano nati, insieme… Un’esperienza che chiunque vorrebbe vivere, più o meno… Così facendo, ecco assommarsi alle classifiche umane anche chi ama ma non come la comunità vorrebbe che si ami.
Il piccolo saggio culturale non pretende molto, vuole solo essere letto e sensibilizzare gli uni verso gli altri per rendere l’esperienza terrena soffice e da ricordare.
Altra immagine artistica che viene in mente alla lettura di tale romanzo è un sottofondo che pare attivarsi automaticamente mentre gli occhi scorrono tra le parole della pagina: tra tante, soprattutto la famosa frase di Via del Campo di Fabrizio De André «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior», frase ormai resa tanto celebre quanto ormai senza valore, seppur bellissima nel suo contesto.
Durante la presentazione che ha avuto luogo il 10 luglio alla simbolica biblioteca Vincenzo Bellini di Catania (evento che si ripeterà in date a venire), la bravissima Giusy ci dice appunto questo:
«i cosiddetti ultimi sono una grandissima fonte di ispirazione, alla quale attingo per rinfrescare la memoria di quel che sono e di cui faccio parte, di ciò che è anche composta la società che viviamo. Non ho messo nomi appunto per questo: quel “qualcuno” che cito continuamente nel libro potrebbe essere chiunque di noi, a qualsiasi età e a prescindere dal luogo d’appartenenza: tutti amiamo e soffriamo, pensiamo, consideriamo e reagiamo: non potrebbe essere altrimenti».
I dugg some of you post as I cerebrated they were very beneficial invaluable