La digitalizzazione della comunicazione e dell’informazione ha permesso una diffusione e un’accessibilità impensabile fino a venti anni fa.
Ma quali sono state le conseguenze derivanti da questo nuovo modo di praticare l’arte del governare?
Questo fenomeno conosciuto come “Tecnopolitica”, così definita da Stefano Rodotà in Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, senza alcun dubbio rappresenta un importante punto di partenza per garantire la trasparenza dei modelli decisionali, la comunicazione reticolare tra le periferie, l’organizzazione e l’economicità.
Con il termine “Tecnopolitica” non si allude solo all’uso delle nuove tecniche comunicative nel settore politico, ma anche alle conseguenze generate nella sua struttura. L’interazione continua, la comunicazione politica di massa hanno creato una piattaforma politica fondata sulle richieste provenienti dal basso, in cui si rendono i cittadini protagonisti e si generano nuovi spazi pubblici. Sono in corso di realizzazione nuovi processi di inclusione.
Vista la complessità del sistema e considerati gli effetti finora registrati, per valorizzare l’aspetto virtuoso del digitale è necessario intervenire con un progetto ben definito, al fine di garantire una maggiore educazione all’uso e all’accesso nel web. Spetta alla società utilizzare le nuove tecnologie in modo utile.
Ad oggi invece, si è avuto modo di constatare che la politica ha adoperato il web, con le sue caratteristiche/qualità che alludono ad una pseudo-democratizzazione, accompagnandosi con il monitoraggio constante del gradimento e del consenso. La rilevazione di engagement, così come accade in ambito commerciale, consente ai politici di definire in ogni momento il tiro della propria politica, trasformandola in un vero e proprio prodotto di mercato e ricorrendo a figure professionali dapprima inesistenti in tale settore. Esempi di analisi Fig.1-Fig.2
Il politico conscio del rischio che corre nell’essere costantemente presente sul web, di adottare una comunicazione che oltrepassi il limite di cui è rivestito il suo ruolo, mortificando, così, il successo raggiunto fino a quel momento (effetto boomerang della tecnologia), quando intende avvalersi del web per le proprie strategie “politico-commerciali”, si lascia affiancare da consulenti specializzati nel settore: i cosiddetti “spin doctors”.
Lo spin doctor è quella figura professionale nata in ambito commerciale, noto per le sue competenze e capacità ad elaborare tecniche di condizionamento, riuscendo ad aumentare la notorietà e i profitti di un’azienda. La sua figura di recente è stata adottata anche in ambito politico.
In un documento rilasciato dal Centro Studi Democrazie Digitali il 23 Novembre 2016 intitolato “Teorie critiche all’ideologia della comunicazione“, si legge:
Le nuove tecnologie rendono intercambiabili falso e vero, almeno a livello percettivo. L’inflazione di una apparente verità frutto di simulazione priva la verità del suo aspetto sacrale. Oggi la comunicazione può essere contraddittoria, senza per questo scandalizzare il suo uditorio. La grande massa del pubblico vive l’impatto con l’evento solo emotivamente e rimuove immediatamente l’attenzione perché nuove immagini lo coinvolgono. Viviamo oggi in una società “liquida”, incapace di fissare punti fermi e valori. Anche la nostra attenzione è liquida e incapace di curiosità perché ci manca l’impegno per raggiungere e perseverare nella ricerca delle cause. Questa liquidità dell’attenzione funziona anche come forma di censura e rimozione. Oggi chiunque può fare in momenti diversi affermazioni contraddittorie, con la sicurezza che il pubblico non ne registrerà l’incompatibilità. La realtà scompare e viene sostituita dal contrario di quella che essa era, o era creduta, o che magari non è mai esistita.
Se circa due secoli fa, la metafora racchiusa nella fiaba dello scrittore danese Hans Christian Andersen (1805 – 1875), intitolata I vestiti dell’imperatore rappresentava una semplice denuncia ad un possibile pericolo, oggi ne costituisce una vera e propria constatazione che trova un suo riferimento nel mondo digitale, quale l’ipostasi della mente.
L’imperatore, protagonista del racconto, era un uomo assai vanitoso che non curava il benessere della collettività, ma prestava esclusivamente attenzione alla sua immagine, amava i bei vestiti al punto da cambiarsi ogni ora e fu per tale ragione che due furfanti approfittando del vizio, proposero di tessere degli abiti con una stoffa magica, che risultasse invisibile a chi non era degno di rivestire la propria funzione. Chiunque lavorasse per lui era ben lontano dall’affermare il contrario per non risultare stupido. L’imperatore si presentava al pubblico completamente nudo, ma nessuno dei suoi sudditi osava affermarlo recitando un vero e proprio siparietto nonostante minassero lentamente la loro identità.
Non è forse quello che accade oggi? Gli imbroglioni sono gli spin doctors che vestono e svestono il loro protagonista, preoccupandosi più della forma che del contenuto, dei sondaggi e dei likes, rendendolo degno di ammirazione. In effetti, nella società iperstorica, il potere non è di chi riesce a proporre qualcosa di convincente, ma di chi adotta una politica comunicativa di tipo utopistica. Le domande che bisogna porsi dinanzi a tali note dolenti sono essenzialmente due: cosa possiamo fare? Come possiamo agire?
Arrestare il cambiamento? Depotenziare la comunicazione? Non credo che possa essere questa la strada da battere. La storia insegna che talvolta il cambiamento è inevitabile. Questo nuovo ambiente comunicativo esige la necessità di impadronirsi della conoscenza di tali fenomeni, educare il nostro vivere nel digitale affinché diventi una risorsa. In un’intervista-dialogo con Evgeny Morozov pubblicata su D la Repubblica il 22 Settembre 2018, Luciano Floridi alla domanda cosa rende una politica “buona” risponde:
«L’impegno a lavorare su un progetto umano digitale. Cioè una forma di vita umana – individuale, collettiva, e pubblica – che una società presenta e promuove di volta in volta come auspicabile. Almeno in teoria o implicitamente, e a seconda dei momenti storici. È plausibile che ciascun progetto umano non sia del tutto realizzabile, o sia realizzabile solo in minima parte, e che quindi vada inteso solo come un ideale regolativo verso il quale tendere. Ma di certo i problemi di cui ci preoccupiamo oggi sono solo conseguenze della sua assenza».
Possiamo dunque escludere in linea di massima che il digitale possa costituire uno strumento nocivo per la collettività, così come ogni progresso appartenente all’umano, ma la bussola è sempre e solo una: la creazione di un progetto di convivenza.
A partire dai prossimi articoli parleremo di come il fenomeno della digitalizzazione abbia investito il concetto di democrazia e le sue modalità di esercizio.
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