Una questione da sottoporre alla nostra attenzione, è cosa s’intenda per privacy nella società iperstorica.
Il fondamento giuridico del diritto alla privacy risiede nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani 1948 all’art 12:
<<Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni>>.
La privacy non è il diritto di restare anonimi, ma il diritto mediante il quale si espleta la libertà di scegliere quale informazione può essere suscettibile di interferenze e quale restare sotto il proprio controllo.
La Quarta Rivoluzione (quella digitale, ndr) non può non avere investito la privacy informazionale. Il vero problema è caratterizzato dalla frizione informazionale, intesa come lo sforzo che viene a richiedersi per reperire informazioni relative ad un altro agente.
Nel secolo precedente un tipo di privacy nota era quella fondata sull’anonimato, ma lo sviluppo delle vecchie ICT (Information and Communications Technology, ossia le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione) fecero ben notare come nel tempo sarebbe mutato il modo di concepire la privacy.
Pietra miliare sull’argomento fu il saggio pubblicato sulla Harvard Law Review nel 1890 intitolato “The right to privacy”, a cura di due avvocati di Boston, Samuel D. Warren (1852 – 1910) e Louis Brandeis (1856 – 1941), che per primi concepirono “the right to be let alone” conosciuto con la formula latina dello “jus solitudinis” il diritto di essere lasciati soli, che rischiava di essere pregiudicato con le innovazioni tecniche e l’attività di cronaca.
Le tecnologie dell’epoca erano ben lontane da quelle che oggi hanno modificato il nostro ambiente, in cui si tende a concepire la privacy in modo più sfumato. La nascita delle nuove ICT ha reso quasi impossibile il diritto all’anonimato, vedendo diminuire la frizione informazionale, cioè lo sforzo da effettuare per reperire informazioni. Viviamo oggi in una società di vetro, dove tutti e tutto sono oggetto di analisi.
Con la nascita del web, in un primo momento, ignari che la non tracciabilità non equivalesse a privacy, pensavamo di agire in anonimo conducendo inconsapevolmente l’esperimento sociale di Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) nella Repubblica, in cui l’autore si interrogò sul modus operandi di una persona comune qualora avesse avuto l’opportunità di agire senza alcun timore di essere scoperta.
La riflessione che ne derivò era alquanto pessimistica, non lontana dalla realtà di oggi, in cui la poca comprensione dei sistemi digitali mostrano quanto più becera possa essere la persona. Lo schermo davanti a noi non è un riparo dalle responsabilità di una società civile, ogni nostra attività è registrata ed oggi entriamo online accettando il compromesso di vanificare la nostra privacy.
Costantemente noi lasciamo tracce di dati personali e le ICT permettono che esse siano monitorate, registrate, analizzate e utilizzate per diversi scopi, ricordandoci la natura di organismo informazionale. Il flusso d’informazioni che circola è rappresentato anche da dati arbitrari, etichette che ci identificano, divenendo il furto d’identità di facile approdo.
Una possibile strada da percorrere potrebbe essere quella della biometria, assicurando così, da un lato che la frizione ontologica diminuisca permettendo un maggior flusso di informazioni e dall’altro la salvaguardia dell’identità personale non interferita da etichette arbitrarie. La biometria non manca di critiche. Il profilo che ha destato maggiore preoccupazione sarebbe quello di snaturare l’umano, rendendolo puro parametro e oggetto di classificazione.
Noto fu il caso del filosofo italiano Giorgio Agamben (1942), che in segno di protesta, si rifiutò di fare ingresso negli Stati Uniti, poiché il programma di ingresso per visitatori e immigrati prevedeva la registrazione mediante la raccolta di impronte digitali e fotografia, considerando simile atto un vero e proprio “tatuaggio politico”.
L’aspetto critico su cui si sono interrogati gli esperti del settore, non ha ad oggetto la veridicità delle informazioni che circolano sul web, ma la sovraesposizione della persona con le proprie vicende, che non destano alcun interesse per l’opinione pubblica.
È possibile rintracciare in questo lungo dibattito, un vero e proprio conflitto di interessi: da un lato la libertà di espressione, il diritto di cronaca, il diritto d’informazione; dall’altro il diritto della persona in questione di proteggere i propri dati. L’obiettivo è quello di assicurare il diritto alla privacy senza che questo sia strumentalizzato per vanificare l’effettività di altri diritti di interesse collettivo.
Dal 2013 ad oggi sul piano giuridico sono stati adottati diversi interventi nel riconoscimento della tutela del diritto alla privacy.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato all’unanimità la risoluzione proposta da Germania e Brasile, volti a porre un freno alla “sorveglianza illegale nell’era digitale” e in difesa del diritto alla privacy dei cittadini. La risoluzione sancisce il principio secondo cui “gli stessi diritti che si hanno offline devono essere protetti anche online, e fra questi c’è il diritto alla privacy”.
L’Unione Europea ha adottato il Regolamento in materia di Protezione dei Dati Personali (2016/679), in vigore dal maggio del 2018. Non basta il diritto, ma occorre che esso sia accompagnato da strumenti digitali in grado di massimizzare il proprio scopo.
La tecnologia, se con la sua innovazione ha posto nuove domande, le risposte e gli antidoti vanno ricercati pur sempre nella tecnologia. Tecnologie che potenziano la privacy (privacy enhancing technologies, PETs) e che la incorporano (Privacy by Design, PbD).
Allontanandoci dall’idea che esista un agente onnipotente capace di controllare ogni informazione creando una sorveglianza continua, l’impegno nella realizzazione delle nuove ICT digitali è stato dunque, quello di potenziare gli strumenti affinché gli utenti possano decidere se incrementare o diminuire la frizione informazionale.
Nel prossimo articolo parleremo dell’impatto delle ICT nella politica
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