Tra la fine del 1943 fino alla fine del secondo conflitto mondiale le truppe naziste diedero all’espressione “marcia della morte” un secondo significato: mentre con il primo si indicavano gli estenuanti trasferimenti dei prigionieri dai campi di concentramento, durante i quali soccombettero a migliaia per fatica, fame e freddo, attuati per prolungare l’agonia di un Reich ormai agli sgoccioli, la nuova accezione scolpì nella storia una tra le operazioni più efferate delle camicie nere.
Nell’intento di salvare il loro dominio in Italia, a partire dal 12 agosto del 1944 i tedeschi cominciarono la risalita della penisola attraverso la Lunigiana; furono artefici numerosi episodi di violenza verso le popolazioni locali incontrate nel loro cammino (tra i diversi eccidi divenne tristemente famoso quello di Stazzema, in cui le vittime furono 560) per poi insediarsi, a fine settembre, nell’area di Monte Sole, tra il fiume Reno e il fiume Setta, che avrebbe formato le retrovie della loro area difensiva e che in seguito avrebbe fatto parte della cosiddetta Linea Gotica.
Tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 fu messo in atto uno degli eccidi più efferati per numero di vittime comparate alla vastità del territorio interessato: la strage di Monte Sole, anche detta Strage di Marzabotto nonostante avesse coinvolto molti altri paesi e comunità nell’area (tra cui Monzuno, Grizzana Morandi e Caprara).
Il generale in commando Walther Reder (1915 – 1991), con la consegna di “ripulire” le zone toscane ed emiliane dalle truppe nemiche, ordinò l’uccisione indiscriminata della popolazione locale poiché il battaglione Stella Rossa era in grado di pattugliare attentamente le vie di comunicazione dell’area.
Al fine di mettere in ginocchio le truppe partigiane in combattimento formate da civili provenienti da diversi retroscena sia culturali che politici e per favorire la ritirata delle truppe alleate, le forze tedesche fecero loro terra bruciata intorno in modo da togliere ai nemici ogni possibilità di riparo e sostegno da parte della popolazione locale. Persero la vita 1830 persone, cifra che verrà forgiata nella motivazione per la medaglia d’oro conferita al gonfalone di Marzabotto nel 1948.
Più di 4000 persone furono barbaramente uccise dai battaglioni comandati dal maresciallo Kessling Albert Kesselring (1885 – 1960) per accerchiare le truppe partigiane in combattimento e far loro terra bruciata intorno macchiandosi di omicidi efferati: una ferocia al di fuori di ogni controllo. Non furono risparmiati animali né case, distrutte al passaggio dell’orda nera: la falce uncinata aveva ancora una volta passato un colpo di spugna su civili colpevoli di vivere le proprie vite in quei luoghi così vicini alla resistenza e che avrebbero potuto costituire una minaccia per i panzer tedeschi.
Solamente un anno dopo, il 17 ottobre del 1945, e poi a settembre del 1946, i fascisti che guidarono le truppe durante l’eccidio furono condannati, mentre Reder nel 1967 inviò una lettera alla comunità di Marzabotto per chiedere perdono, ma non gli fu concesso con grande maggioranza dei voti dei locali. Rientrato in Austria, negò le sue rimostranze; morì nel 1991.
Oggi sarebbe stato il sesto giorno di ferocia nazista a discapito degli emiliani, l’ennesimo in cui i cittadini furono costretti ad assistere a un’operazione di annullamento dell’essere umano, mai preso in considerazione durante il truce ventennio.