Tutti noi abbiamo abitudini. Così come tutti noi abbiamo vestiti. Cosa? Ma che c’entra adesso il paragone tra abitudini e vestiti? La parola abitudine deriva dal latino “habitus”, “abito”. Un’abitudine è un comportamento che adottiamo con una certa frequenza, un po’ come un vestito che ci sta più o meno bene e decidiamo di indossare.
Cambiare un’abitudine non è certamente tanto facile quanto cambiare un abito. Quando cambiamo un abito ci troviamo di fronte a una situazione quasi obbligata, o perché si rovina, o perché abbiamo cambiato taglia, o perché non ci piace più, o per altre ragioni. Cambiare abitudini, invece, tende ad essere più difficile, perché ci mette in una situazione di difficoltà, disorientamento e, spesso, vera e propria sofferenza.
Oltre a questo, mentre gli abiti possono essere indossati per diversi anni, fino a quando non decidiamo di disfarcene, esistono abitudini che possono permanere molto più a lungo, a volte per tutta la vita, alcune delle quali nocive. A quest’ultime diamo solitamente il nome di “vizi”. E, di solito, sono proprio queste che vogliamo cambiare o eliminare.
Viviamo la nostra giornata in un certo modo, spesso molto simile al giorno precedente e a quello successivo; abbiamo i nostri rituali; tendiamo a rispondere in maniera simile a ciò che ci accade intorno.
Perché decidiamo di cambiare un’abitudine?
Esistono contesti in cui mantenere delle abitudini ha senso. Le abitudini hanno anche una funzione evoluzionistica, perché ci consentono di arrivare a una soluzione e a ottenere risultati più efficaci e più velocemente. Esistono casi in cui non ha neanche senso cambiare abitudine e mettersi volutamente in una situazione di difficoltà, perché è necessario semplificare, muoversi rapidamente e con sicurezza.
Esistono, però, altri casi in cui una certa abitudine si mantiene per altre ragioni non necessarie: paura della sofferenza, piacere, dipendenza mentale e fisica o magari, semplicemente, perché non si sono tentate altre strade.
Ad ogni modo, in questo articolo ci interessa focalizzarci sui vantaggi ai quali può portare la scelta di cambiare le nostre consuetudini e non sulle ragioni per le quali non le cambiamo.
Ci limitiamo a osservare che spesso crediamo ci sia una resistenza quasi naturale al cambiamento; eppure, in realtà, la maggior parte delle volte si tratta semplicemente di una resistenza appresa, condizionata dall’ambiente, dalla cultura e dalla società in cui cresciamo – se non dalla dipendenza mentale o fisica.
Basti pensare, tra le tante cose, alle tazze di caffè che beviamo durante la giornata, alle sigarette, alle bevande zuccherate, agli alcolici, alle droghe, al controllo costante dei social media, al modo in cui rispondiamo quando qualcuno ci attacca, ci fa una domanda, alle cose di cui parliamo quando siamo con altri, e così via.
Ognuno di noi è soggetto a condizionamenti, che derivano dalla famiglia, dalla cultura, dalla società, dalle persone che frequentiamo e che ci capita di incontrare nella vita e dagli eventi che viviamo, per caso o per volontà.
Ciò che è culturale tende, cioè, a diventare naturale – ed è questo che intendeva il filosofo svizzero Jean-Jeaques Rousseau (1712 – 1778) quando descriveva la società come una “seconda natura”.
Che senso ha, potrebbe pensare qualcuno, provare a decondizionarci e a ricondizionarci, se stiamo bene come e dove siamo?
Di fatto, anche qui, le ragioni possono essere molteplici, e ognuno ha le sue. Secondo alcuni non ha alcun senso. Secondo altri sì.
Esistono, però, alcune persone che decidono di farlo semplicemente perché la considerano una pratica potenzialmente portatrice di vantaggi psico-fisici. Ed è su questo aspetto in particolare che ci concentreremo oggi.
Come si fa a cambiare un’abitudine?
Su questo tema si è concentrato ampiamente il noto autore statunitense Anthony Robbins, che sull’argomento ha scritto interi volumi.
il primo passo consiste sempre nell’identificare l’abitudine che vogliamo eliminare o sostituire. Il secondo, nel decidere di farlo. Il terzo, nell’elaborare un piano operativo per riuscirci. E il quarto nell’attuarlo, attraverso un processo di ricondizionamento e riprogrammazione.
Senza questi passi, ogni cambiamento avviene in maniera puramente casuale e non è determinato dalla nostra volontà.
Esistono poi diverse metodologie e tecniche per riuscirci, e l’argomento merita un discorso a parte.
Di fatto, per usare un’espressione inglese, cambiare le proprie abitudini implica un’uscita obbligata dalla propria “zona di comfort”.
Quali i sono i vantaggi del cambiamento?
Cambiare abitudini è un processo che aiuta a diventare più consapevoli di sé, ampliare la propria visione delle cose e migliorare le proprie condizioni di vita. E la vita ci offre giornalmente prova del fatto che fare sempre le stesse cose e allo stesso modo rende più difficile imparare qualcosa di nuovo.
Questo atteggiamento nei confronti della vita era già implicitamente suggerito dal filosofo italiano Giordano Bruno (1548 – 1600) nei suoi scritti mnemonici, quando spiegava come esercitare la propria capacità inventiva (inventio).
Provare ad utilizzare diverse combinazioni, fare esperienze diverse e fare le stesse esperienze in maniera differente, è ciò che ci avvicina alla conoscenza divina (pansofia) e al modo di operare di Dio, che altro non fa se non sperimentare continuamente combinazioni diverse tra gli elementi dell’universo. E il tempo, ossia ciò che chiamiamo “storia”, non è altro che il laboratorio all’interno del quale tutte queste esperienze hanno luogo.
Secondo Bruno questa capacità è una traccia di Dio nell’uomo, che può arricchirsi spiritualmente proprio attraverso l’esercizio di questa facoltà divina (luce nell’ombra e ombra della luce), che dà la possibilità di auto-elevarsi facendo esperienze nuove.
La grandezza dell’essere umano, cioè, sta per Bruno proprio nella sua capacità di apprendere dalle esperienze e raggiungere una visione più ampia delle cose: un concetto perfettamente in linea con la concezione Rinascimentale dell’homo faber, l’essere umano artefice e responsabile del proprio destino.
È un dato di fatto che sicuramente provare nuove strade può aiutarci ad ampliare la nostra visione delle cose. Scegliere di mettersi consapevolmente in una situazione di difficoltà, in una condizione di disagio – e talvolta di sofferenza – ci consente spesso di andare oltre i limiti che credevamo di avere, e quindi di aumentare le nostre possibilità di sopravvivenza in natura e in società, perché ci prepara a situazioni nuove che potrebbero accadere nella vita reale.
Questa pratica può, cioè, insegnarci a improvvisare quando ci troviamo in una situazione nuova e inaspettata, a inventare quando necessario.
Esistono cose strutturalmente impossibili per l’essere umano. Altre semplicemente più o meno relativamente facili o difficili. L’unica differenza tra un’operazione facile e una difficile è semplicemente che nel secondo caso gli scalini intermedi per arrivare al risultato sperato sono di più e variano di soggetto in soggetto, a seconda dell’esperienza maturata.
Mettere in discussione le proprie abitudini significa cercare di prendere in mano la propria vita e vivere con maggiore consapevolezza. Cercare, cioè, di vivere la miglior vita possibile ed essere la migliore versione di sé stessi.
Sono diversi gli studi neuro-scientifici che hanno confermato questi meccanismi. Gli studi del medico statunitense Gerald Edelman (1929 – 2014), premio Nobel per la medicina nel 1972, con la sua teoria del “darwinismo neurale“, per esempio, spiega quanto le esperienze nuove stimolino la creazione di nuove connessioni neurali; e come la ripetizione delle stesse esperienze porti al rafforzamento di tracciati neurali già esistenti.
Il cambio di abitudini come approccio educativo-formativo moderno
Molto interessante è la metafora del noto cartone animato Dragon Ball e dei cosiddetti “giochi di ruolo” (in inglese RPG, ossia role-playing game), che sintetizzano la concezione rinascimentale dell’homo faber e suggeriscono il cambio di abitudini come pratica costante per aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza.
In Dragon Ball i protagonisti, esperti di arti marziali, cercano di mettersi costantemente in una situazione di difficoltà per diventare sempre più abili nel combattimento. Per far questo entrano in una camera altamente tecnologica in cui hanno la possibilità di allenarsi aumentando gradualmente e artificialmente la gravità all’interno della stanza. E combattono con avversari nuovi ogni volta che possono, in modo da prepararsi al meglio quando sono costretti a farlo per salvare il mondo da chi vuole distruggerlo.
Si tratta di un approccio alla formazione che ritroviamo nella vita di tutti i giorni in diversi settori.
È la stessa cosa che fa un musicista quando si cimenta in un nuovo studio e usa il metronomo: dopo essersi abituato ad eseguirlo ad una certa velocità, può aumentare gradualmente la rapidità di esecuzione, di unità in unità, uscendo costantemente dalla propria zona di comfort.
O la stessa cosa che fa un atleta quando aumenta progressivamente i carichi, la durata o il numero di ripetizioni di un certo esercizio; o quando cambia routine di allenamento.
Il progresso nel campo conoscitivo, cioè, avviene quando decidiamo di fare un’esperienza nuova, o di fare un’esperienza già fatta in maniera diversa.
E quanto incide il nostro atteggiamento nel processo di accoglimento di un’esperienza nuova?
Come aveva insegnato il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724 – 1804) nella sua Critica della Ragion Pura (1781), non esistono esperienze neutre, perché l’esperienza è per definizione già impregnata di giudizi – ed è questo che sembrava intendere il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844 – 1900) con la famosa frase: “non esistono fatti, solo interpretazioni” (Frammenti Postumi, 1885 – 1887).
Il nostro giudizio sulle cose limita e delimita il modo in cui le percepiamo. Ed è per questa ragione che, quando si fanno nuove esperienze, può essere utile restare consapevoli del fatto che gli inflazionatissimi concetti relativi di “bene e male” o “giusto e sbagliato”, utilizzati per connotarle, altro non sono se non giudizi di valore, etichette inesistenti in natura che possono limitare, alterare e condizionare la nostra percezione delle cose.
In certi contesti ha sicuramente senso fare uso di questi concetti. Allo stesso tempo, però, può essere utile osservare e vivere l’esperienza con la consapevolezza della sua parzialità, coscienti della sua naturale neutralità.
È noto il fatto che, quando l’inventore statunitense Thomas Edison (1847 – 1931) lavorò all’invenzione della lampadina, aveva un team di persone che lavoravano con lui ed erano pagate per fare quante più esperienze diverse possibili e quanto più rapidamente possibile, per avvicinarsi alla soluzione ricercata nel più breve tempo possibile.
Ogni esperimento fallito non veniva affatto percepito come un male, tutt’altro! Veniva concepito come qualcosa di positivo, come un passo avanti in direzione della soluzione ricercata.
Molte persone hanno avuto grandi benefici dall’applicazione di questo genere di approccio alla vita. Tanto che la maggior parte delle pratiche suggerite dalle moderne teorie del progresso personale (in inglese self-development) hanno praticamente assunto quasi unanimemente il cambio delle abitudini come modus operandi fondamentale.
Conclusione: Provare per credere
Provate innanzitutto ad identifcare le vostre abitudini, soprattutto quelle che vorreste cambiare.
Provate, cioè, a vivere la vostra vita disattivando la modalità “autopilota” e provando altre soluzioni, anche solo per capire se può portarvi a qualche beneficio.
Forse vi servirà, e vi farà vedere le cose in maniera diversa; o magari sarà completamente inutile, e non vi sarà d’alcun aiuto. Quantomeno, però, potrete dire di aver provato altre soluzioni e potrete tornare alle vostre vecchie abitudini con maggior consapevolezza.
Di certo, se vi aspettate di cambiare alcune abitudini continuando a fare sempre le stesse cose, rischiate di fare un buco dell’acqua.
O, quantomeno, questo è quello che pensa chi ha detto che aspettarsi risultati differenti facendo sempre la stessa cosa è follia.
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