lunedì, Gennaio 13, 2025
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    Sicurezza e decoro, quella retorica che oscura il disagio sociale

    Finestre rotte | I fatti di Tor Sapienza e di Milano hanno riaperto la questione delle periferie. La teoria degli anni ’80 messa in pratica anche dall’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani è un esempio di come spesso si affronta la criminalità

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    Avete presente quando entrate in un quartiere di una città che non conoscete, magari durante una vacanza, un viaggio di studio o una trasferta lavorativa, e vi accorgete che ciò che vi circonda emana un senso di insicurezza? Come se i palazzi, le strade, le macchine e tutte le “cose” che vedete attorno a voi comunicassero lo “stato di salute” del luogo in cui vi trovate.

    Il livello di ordine e pulizia che percepite possono essere degli indici affidabili del grado di criminalità vigente nel quartiere? A quanto pare per molti è esattamente così. Sempre più spesso crimine e malavita vengono ricondotti ad un problema di decoro urbano. I recenti episodi di Tor Sapienza ne sono una lampante dimostrazione: finito al centro del dibattito mediatico dopo alcuni disordini, il quartiere romano è divenuto suo malgrado simbolo del degrado delle periferie.

    Una forma mentis che caratterizza diverse metropoli occidentali, e che deve la sua origine ad un modello ben preciso: quello della Teoria delle finestre rotte. Il suo tentativo è infatti proprio quello di chiarire la genesi della criminalità nei centri urbani, identificando nel più piccolo atto illecito il seme di un’escalation che produce, come nella metafora del battito delle ali di farfalla, problematiche criminali più complesse e articolate. Esposta nel 1982 da James Wilson e George Kelling in un articolo pubblicato sulla rivista The Atlanticla teoria espone il proprio modello di città sana proprio tramite la metafora della “finestra rotta”:

    “Prendete un palazzo con poche finestre rotte. Se le finestre non vengono riparate, i vandali tenderanno a rompere anche le altre finestre. Alla fine, potrebbero anche entrare nel palazzo e, se libero, potrebbero occuparlo oppure dargli fuoco. Considerate anche un marciapiede dove si accumulano i rifiuti. In poco tempo la spazzatura aumenta. La gente comincia anche a lasciarci i sacchetti con i resti del cibo acquistato nei bar”

    La conclusione viene da sé, e il parallelismo tra la teoria e la scienza medica appare evidente. Così come una persona affetta da un virus deve essere subito guarita per non contagiare altre persone, anche il primissimo segnale di degrado va tempestivamente estinto, pena la diffusione dell’atto incivile.

    L’origine concettuale della teoria è rintracciabile in un esperimento del 1969, condotto dall’équipe di psicologi sociali della Standford University guidati da Philip Zimbardo. Dal punto di vista della gestione urbana, a metà degli anni ’70 il “Safe and Clean Neighborhoods Program” intendeva migliorare la qualità della vita in 28 città nello stato di New Jersey.

    L’idea fu quella di  “sguinzagliare” i poliziotti, facendoli uscire dalle auto di servizio e portandoli a perlustrare i quartieri a piedi. L’efficacia dell’esperimento in sé fu piuttosto ridotta, ma gli studiosi rilevarono un risultato sorprendente: i cittadini dichiaravano di sentirsi più sicuri ed erano entusiasti del lavoro svolto dalla polizia. Il programma ebbe come obiettivo la riduzione della presenza di clochard, accattoni, tossico-dipendenti e di tutte quelle persone che potevano rappresentare una fonte di paura per gli abitanti locali. Tutto ciò creò una sensazione generale di sicurezza.

    È proprio in questi anni che va quindi formalizzandosi la correlazione tra ordine e sicurezza, quella che ispirerà il modello Broken Windows. Ma bisognerà attendere un altro decennio per far sì che la teoria delle finestre rotte si converta in ideologia. Più precisamente quando l’azienda dei trasporti di New York richiederà la consulenza di Kelling in merito al fenomeno di degrado della metropolitana. L’obiettivo era semplice: estinguere i reati più gravi combattendo le infrazioni minori, come i graffiti e l’evasione del pagamento del biglietto.

    Un modus operandi che si consoliderà del tutto nel periodo compreso tra il 1994 e il 2001, quando l’amministrazione del sindaco Rudolph Giuliani darà una forma politica e gestionale alla teoria. È proprio partire da questo momento che si inizierà a parlare ufficialmente di “tolleranza zero”. All’operato del primo cittadino verranno attribuiti numerosi successi, come la riduzione della presenza delle bande criminali, dei furti e degli omicidi, assieme all’aumento del rispetto di alcune regole della condotta civile, tra i quali il pagamento del biglietto dei trasporti pubblici e la gestione dei rifiuti. Alcuni dati statistici promossero New York a città virtuosa nella lotta alla criminalità.

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    Lo scopo era sempre lo stesso, sia per il “Safe and Clean Neighborhoods Program” che per Giuliani: ripulire le città da tutti quei elementi disturbanti per il decoro pubblico e far rispettare minuziosamente tutte le regole. L’idea di fondo, suggerita dal modello Broken Windows, era che per istituire un clima di legalità bisognasse seguire una logica piramidale, agendo alla base ed eliminando tutte quelle piccole “finestre rotte” che avrebbero prodotto, inevitabilmente, l’insorgenza di crimini più pericolosi e ingestibili.

    A cavallo tra gli anni ’90 e 2000 questo modello inizierà a caratterizzare l’agire di molti amministratori della “cosa pubblica”, sia americani che europei, andando a generare quello che Wacquant ha definito la “mondializzazione della tolleranza zero”. Eppure molte altre ricerche, mirate a rilevare variabili più ampie, testimonieranno come la criminalità durante gli anni ’90 si sia notevolmente ridotta non solo nella “City”,  ma anche in tutta l’America. Questa corrente di pensiero nega che la politica della tolleranza zero possa essere la soluzione principe alla gestione della criminalità urbana e riconduce l’abbassamento del livello di criminalità ad altri fattori, tra i quali l’istituzione di un sistema di welfare efficiente e l’aumento dell’occupazione lavorativa.

    Sembra che il vero trionfo della teoria di Kelling e Wilson consista, almeno in parte, più nella sua capacità di ridurre la percezione mentale del pericolo nei cittadini che nella sua concreta efficacia nel combattere le condotte criminali. Bandire gli accattoni, i clochard, i lavavetri, far pagare i biglietti dei trasporti pubblici, eliminare tutti i graffiti, tenere le strade pulite sono indubbiamente degli ottimi propositi; al tempo stesso, però, rappresentano dei segni visibili e tangibili della presenza dello Stato, e i cittadini possono così ricondurre facilmente la sicurezza vigente nelle proprie città all’opera accorta dell’amministrazione. Ma è possibile che a fronte di problemi reali così difficili da risolvere (principalmente di natura economica) i politici tendano ad ingigantire il problema della sicurezza urbana, costruendo un’immagine di pulizia e di ordine al fine di ottenere il consenso dell’elettorato altrimenti impossibile da conquistare?

    La “criminalizzazione del disordine” e dei comportamenti di chi conduce la sua vita prevalentemente per le strade fa tornare alla memoria il monito di Solone, che affermava «La giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi». Come è possibile agire senza sconti verso tutte quelle persone ridotte a vivere ai margini della società, se prima lo Stato non garantisce loro le condizioni per vivere un’esistenza dignitosa? In altre parole, come si può vietare ad un uomo senza dimora di dormire per strada? Senza modificare il disagio sociale alla radice (ad esempio istituendo un welfare che funzioni)  si rischia di inciampare in un logica riduttiva in cui la sicurezza non è autenticamente creata, ma solo simulata. E nascondere la polvere sotto al tappeto non rende certo la casa più pulita.

    Il modello Broken Windows ha sicuramente contribuito a sviluppare una nuova percezione degli spazi pubblici e ad intensificare l’attaccamento ai propri luoghi di vita, verso cui è utile nutrire sentimenti di rispetto e attuare comportamenti di vigilanza che ne salvaguardino il valore. Tuttavia, qual è il criterio con cui identificare nella nostra società una “finestra rotta”? Un uomo disoccupato e ridotto alla povertà che chiede delle monete per poter sopravvivere lo è? Due ragazzi che bevono una birra seduti sulle scalinate di una fontana lo sono? E un musicista di strada che suona blues in un angolo? Il rischio è che la politica della tolleranza zero generi facili consensi per dubbi risultati, limitando la libertà e la dignità di tutte quelle persone costrette ad affrontare una condizione esistenziale difficile. Inibendo, oltretutto, la manifestazione di quei comportamenti culturali e sociali con cui le persone vivono la propria città.

    1 commento

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