Zan, Zar, Zamin: donne, oro, terra. Il famoso detto del pashtunwali che in tre parole riassume le ragioni di quasi duecento anni di violenza endemica in Afghanistan, è molto utile anche per capire una delle ragioni primarie dell’odio etnico verso gli hazara e della volontà di cancellare la loro eredità culturale. Un buon capo pashtun, infatti, mantiene l’onore se riesce a “proteggere” le sue tre proprietà: la sua terra, i suoi averi e la sua donna, considerata alla stregua di un oggetto. L’onore di una donna dipende della modestia dei comportamenti e dalla capacità di non diventare una devianza per l’uomo, dalla predisposizione ad obbedire ciecamente a padre e marito.
Se c’è un’esperienza radicalmente diversa da quella di tutte le altre donne afghane, è quella delle donne Hazara: vere e proprie apripista nella lotta per garantire la parità di genere a tutta la popolazione femminile. Il loro impegno di Resistenza è stato fondamentale nei processi storici che hanno caratterizzato le conquiste femminili in Afghanistan. Le prime vere testimonianze dell’enorme differenza percepita fra donne Hazara e donne Pashtun si possono ritrovare addirittura fra le carte dei sovrani Durrani Pashtun di fine ‘Settecento. La comunità Hazara viene descritta come “destinata ad un futuro periglioso”, soprattutto in quanto “i loro uomini e le loro donne sono sullo stesso livello, collegati gli uni agli altri”.

È subito ben chiaro come la partecipazione femminile ai processi sociali quotidiani metta in crisi l’antica società tribale afghana, incapace di comprendere come una donna potesse avere le stesse possibilità di un uomo e, contemporaneamente, osservare i precetti del pashtunwali. Durante l’occupazione sovietica degli anni 70, circa 200.000 donne afghane conoscono il progresso e trovano, per la prima volta, un’occupazione che le rende indipendenti dagli uomini. Purtroppo, le cose cambiano presto. La guerra civile dei partiti islamisti dei Mujahiddin e la conquista dei Talebani impediscono il completamento di un processo sano di emancipazione e, anzi, rigettano l’Afghanistan in un regime oscurantista in cui, di certo, non c’è spazio per le donne.
C’è chi, però, non accetta di tornare indietro e rinunciare a quel poco che si è conquistato. Sono le donne Hazara, che, invece, scelgono fieramente di resistere, spesso prendendo in mano le armi e combattendo fianco a fianco degli uomini. Sono donne che da secoli vivono sulla loro pelle la discriminazione del loro popolo, ma che vivono una condizione doppiamente difficile ed esasperante, in quanto donne in un paese in preda ai radicalismi religiosi. L’islam dei Talebani è un Islam quasi unico al mondo, la cui ferrea ed intransigente applicazione fa porre qualche domanda addirittura agli alleati wahabiti sauditi.
Più che imporre la Sharia, i Talebani impongono il nazionalismo pashtun e il pashtunwali. Proprio per questo temono le donne Hazara: donne libere, che scelgono come vestirsi e cosa studiare, che mettono i tacchi e le gonne e che li sfidano a viso aperto. Ci sono diversi esempi di Resistenza femminile Hazara contro l’oscurantismo imposto dai Talebani. C’è chi prende le armi e partecipa attivamente alle attività militari: il
comitato centrale del partito Hazara Hizb-e-Wahadat conta addirittura dodici donne, professioniste istruite che collaborano senza differenze di genere e prendono importanti decisioni strategiche. Donne come la dottoressa Humera Rahi e le sue colleghe, insegnanti all’Università di Kabul.
Quando i Talebani prendono la capitale fuggono, ma non si arrendono. Fondano a Bamyan un’università in una provincia che da nove mesi
è assediata e senza rifornimenti dai Talebani. Le aule sono costruite in fango, paglia e pietre, ma le Hazara sfidano qualsiasi condizione e continuano a fornire un sistema di educazione di base ai giovani e assistenza famigliare soprattutto ai nuclei composti da vedove con numerosi figli. Il protagonismo femminile delle donne Hazara non si limita ad azioni militari o umanitarie, sono pronte ad avviare una vera e propria
stagione di attivismo politico, come fanno Sima Samar e Habiba Sarabi.

Sima Samar, Hazara di Ghazni, nasce nel 1957 ed ottiene la laurea in medicina presso l’Università di Kaboul. Comincia un’intensa attività di
assistenza medica, ma deve fuggire, perché comincia a temere per la sua incolumità, e spostarsi in Pakistan. In questi anni organizza forum di discussione e iniziative a favore delle condizioni delle donne afghane ed
hazara, vince numerosi premi a dimostrazione della sua attività e si scaglia ferocemente contro l’adozione del burqa e la dieta imposta alle donne afghane, che secondo alcune ricerche le rende fragili e avvezze ad
infezioni anche mortali.
La dottoressa Habiba Sarabi è la prima donna nella storia dell’Afghanistan ad essere eletta come governatrice di una provincia, quella di Bamyan nel 2005. Oggi siede fra i banchi dell’Alto Consiglio di Pace in Afghanistan come una dei membri più importanti ed autorevoli. Nata a Mazar-e Sharif nel 1957, fu fra le prime donne a denunciare il regime dei talebani e a raccontarne proprio la condizione femminile, fra gli obblighi di poter lavorare esclusivamente dentro casa, l’esclusione da ogni sistema di educazione e l’obbligo di vestire il burqa. Con grande coraggio durante quegli anni sviluppa una rete di formazione segreta e tiene corsi a Kaboul, Mazar e Bamyan. Ancora una volta gli hazara dimostrano quanto la risposta all’oppressione sta nell’educazione e nella formazione. Oltre all’attenzione per le questioni di genere, Sarabi è ancora oggi molto importante per le rivendicazioni hazara. È stata fra le prime a parlare chiaramente di sviluppo economico della provincia di Bamyan e dell’Hazaristan, proponendo riforme sociali di alto valore per tutta la regione.

Nell’Afghanistan di oggi, a rappresentare perfettamente il ruolo della donna Hazara combattente, ma anche professionista formata e protagonista della politica, è Salima Mazari. Due settimane fa è sopravvissuta ad un nuovo attentato nei suoi confronti da parte dei Talebani. Mazari, 39 anni, a capo del distretto di Charkint nella provincia di Balkh dal 2018, è una di quelle donne Hazara che i Talebani temono. È la prima donna ad occupare questo ruolo e, nonostante le enormi competenze acquisite, ha dovuto combattere per sconfiggere pregiudizi e corruzione. Non è da sottovalutare, inoltre, che Balkh è una provincia ad alto rischio, assediata dai Talebani: dal giorno della sua elezione, Salima Mazari si è trovata a dover prendere in mano le armi molte volte.
Seppur convinta del valore della Resistenza per il suo popolo, dopo qualche tempo in attesa di sostegno dal governo di Ghani ha capito che per salvare la sua gente avrebbe dovuto agire da sola. Dice di credere nella forza del dialogo nonostante un passato di sangue lungo quarant’anni che ha distrutto il suo Paese. Contro ogni previsione, ad ottobre 2020 è riuscita a convincere, con la sola forza delle parole, addirittura 125 Talebani ad arrendersi pacificamente, consegnare le armi e
unirsi alla Repubblica. Questo modus operandi ha terribilmente spaventato la leadership locale degli studenti coranici: una donna, Hazara, considerata infedele, senza l’utilizzo della forza, sta riuscendo dove vent’anni di cooperazione internazionale sembrano aver clamorosamente fallito, convincendo persone solitamente pronte a qualsiasi cosa per riconquistare il paese.

Le donne Hazara possono combattere, come Salima Mazari, possono studiare e far studiare, come Humera Rahi, possono fare attivismo politico, come Sima Samar e Habiba Sarabi, o semplicemente possono scegliere di andare a scuola nonostante i pericoli, come le studentesse della Sayyd al Shuhada. Questi esempi di Resistenza, seppur magari diversi per modalità e raggio d’azione, sono accomunati da un’unica grande idea: queste donne sono e saranno protagoniste del futuro dell’Afghanistan e indietro non ci si torna, costi quel che costi.