Una lettura psicologica delle reazioni alle dichiarazioni di Antonio Guterres
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Durante il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. svolto nella giornata dei martedì 24 ottobre, il segretario generale Antonio Guterres ha dichiarato che “è importante riconoscere anche che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e piagata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente fu sfollata e le loro case demolite. Le loro speranze per una soluzione politica alla loro situazione sono svanite”.
Nulla di nuovo sotto la luce del sole, se non il dimenticato. Il segretario non ha fatto altro che riprendere le risoluzioni O.N.U., e in particolare modo la numero 242 (1967): l’occupazione israeliana della Palestina è illegale (qui potete leggere tutte le misure intraprese dalle Nazioni Unite, che il paese israeliano ha disatteso).
Guterres non è nemmeno il primo ad esternare simili idee. Passando dagli israeliani Ilan Pappé (storico) e Gideon Levy (giornalista), fino alle inchieste internazionali da parte delle stesse Nazioni Unite e di numerose O.N.G. come Amnesty International, sono molte le evidenze che accertano l’assoluta violazione di qualsiasi diritto umano a scapito della popolazione palestinese. Dovrebbe bastare questo per capire che nulla di strano e “osceno” è uscito dalla bocca di Guterres.
Proviamo a capire, allora, come mai Israele e tutta la stampa mainstream occidentale abbiano animatamente contestato tali dichiarazioni, riprendendo brevemente il significato di “eziologia”.
Secondo l’enciclopedia Treccani, l’eziologia è quella “scienza che indaga le cause di una determinata classe di fenomeni o le origini di qualche fatto o manifestazione. In medicina, indica lo studio delle cause, sia esterne sia insite nell’organismo, delle malattie; correntemente, il termine è esteso a indicare la causa stessa di una malattia e il meccanismo con cui essa opera“.
Da un punto di vista psicologico, qualsiasi sofferenza umana va accolta e collocata all’interno di un universo di significati ben preciso: le relazioni familiari, la biografia personale, le “ferite” simboliche accumulate nella vita, i sogni, le speranze. Questo processo è finalizzato alla piena comprensione della condizione esistenziale della persona, a cui segue la messa in atto di un insieme di tecniche e di strategie volte ad innescare un cambiamento positivo.
E’ di Paul Watzlawick l’idea che “un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica“. Senza questo passaggio che porta alla comprensione, un problema non può essere eradicato.
Ora, da tali considerazioni possiamo evincere una prassi teorica chiara, da conservare nella mente e agire con il cuore: contestualizzare non è mai minimizzare, né legittimare un atto malvagio. Bisogna resistere al ricatto dell’approccio dicotomico iper-polarizzato, che si esprime attraverso l’identificazione di due gruppi distinti, rigidi e impermeabili: chi sta con Hamas e chi sta con Israele.
L’establishment politico di Israele e gran parte dei miei occidentali premono affinché non avvenga questo tipo di riflessione profonda, con l’intenzione di ridurre il conflitto più lungo e complesso delle storia umana all’azione di un gruppo di scellerati (Hamas) che, a causa di un mero “odio religioso”, decidono di ammazzare gli ebrei “in quanto ebrei” (direbbe Cerasa, direttore de “Il Foglio”). È un approccio alla questione quanto meno disonorevole.
A onor del vero, bisogna dire che è plausibile pensare che diverse componenti di Hamas siano, oggi, dominate dal sentimento dell’antisemitismo, e certamente questo rappresenta un grave problema ed un enorme ostacolo alla pace (per un approfondimento su questo tema, si rimanda all dibattito sullo statuto di Hamas del 1988 e le posizioni antisemite ivi presentate. Si consiglia, inoltre, la lettura di questo articolo e del libro di Paola Caridi). Ed è altrettanto grave constatare l’aumento esponenziale della violenza organizzata dei coloni israeliani, che in particolare modo negli ultimi 25 anni hanno attaccato ed occupato i territori che l’O.N.U. ha assegnato ai palestinesi.
È utile e doveroso comprendere la radicalità di tali posizioni prendendo in esame un sistema di ragioni, cause e processi storici. E’ questo che va fatto, oggi, nei confronti di quanto vediamo in medio-oriente: non giustificare, ma porre in dialogo l’oggi con il passato, cogliendo le speranze del futuro di intere generazioni israeliane e palestinesi sotto scacco di una élite politica incapace ed eticamente folle.
Potremmo riassumere quanto detto attraverso una domanda:
- Come siamo passati da Arafat e Rabin, ai quali fu consegnato – insieme a Perez, il premio nobel per la pace – ad Hamas e Netanyahu?
E’ certo che soffocare la popolazione della Striscia di Gaza, tenendola in una condizione che va oltre il disumano non è funzionale al mantenimento della pace; in tal senso si esprimono anche diversi strati della società civile israeliana e tantissimi ebrei nel mondo. La fine dell’oppressione della Striscia di Gaza, la “prigione più grande al mondo“, come l’aveva definita lo storico israeliano Ilan Pappé, deve essere una priorità.
Se la violenza è – per sua natura – ingiustificabile, la sua comprensione è l’unica via per sconfiggerla.